Un racconto di Aldo Maria Valli
Permettete che mi presenti. Mi chiamo... Già, come mi chiamo?A dire il vero non lo so. Qualcuno mi chiama embrione, qualcuno feto, qualcuno prodotto del concepimento (che razza di nome!),qualcuno bambino. Potessi scegliere, sceglierei bambino.
Ricordo bene che la mia mamma mi chiamava così, "il mio bambino",quando ancora stavo dentro di lei. Povera mamma, quanto ha sofferto. Ero il suo figlio numero tre. Lei mi voleva, mi sentiva suo. Poi però rimase senza lavoro, con due figli da sfamare e un marito, mio padre, che c'era e non c'era, che c'era quando non doveva esserci e non c'era quando avevamo bisogno di lui. Un disastro. La mia mamma si spaventò, andò in panico. E rimase tremendamente sola. In quelle condizioni, decise di rinunciare a me. La capisco e non l'ho mai condannata. Però il fatto di capirla non elimina un altro fatto piuttosto evidente, e cioè che io sono stato soppresso. Espulso, anzi triturato e poi espulso. Non una bella fine, credetemi. Una fine che ha pesato e continua a pesare sulla mia povera mamma, che da allora non si è data pace. Magari non lo dice, ma io lo so: lei si è pentita di non avermi tenuto. Ci sono donne che vogliono fare di tutto per essere simili agli uomini, e pensano che poter decidere se avere o meno un figlio sia un modo per avvicinarsi alla condizione degli uomini. Che illusione.
Mi basta pensare alla mia mamma per rendermi conto che le donne vanno bene così come sono, cioè donne, cioè ben diverse dagli uomini. Le donne hanno qualcosa di più degli uomini, non di meno. Le donne hanno la maternità, hanno la possibilità di diventare mamme e di dare la vita. Sono gli uomini che dovrebbero cercare di essere come le donne, caso mai. Dico la possibilità di diventare mamme, non l'obbligo, perché sarebbe assurdo obbligare una donna ad avere figli. Se non vuole, se vuole essere donna in quel modo lì, senza figli e senza maternità o con una modica quantità di figli e di maternità, faccia pure. E' un suo diritto. Ma non si dica che tutto questo è un progresso, perché così la donna non è più donna ma meno donna. Così la donna si toglie qualcosa, si nega qualcosa che fa parte di lei e la caratterizza. E non si dica che per non avere figli, o averne di meno, ogni sistema va bene, compreso l'aborto e compresa quella cosiddetta pillola RU 486 che è un altro modo di abortire. In un mondo ben ordinato bisognerebbe aiutare la donna a essere più donna, non indurla a essere meno donna. Ma il mondo ben ordinato dov'è? Se ripenso a me e alla mia mamma, trovo solo tanta solitudine. E tanta medicina. Che è senz'altro utile per molte cose, ma non tanto utile per una mamma che si sente sola e disperata. Andò all'ospedale, la mia mamma. Ma non è all'ospedale che si trova la compagnia necessaria per affrontare certi problemi. Aveva bisogno di parlare con qualcuno, di parlare e ascoltare, e invece le diedero un modulo. Con un modulo non si parla, e lui non parla. Anzi, sì: dice una cosa ben precisa: firmi qua. Se vuole abortire, metta la sua firma. Ma che razza di dialogo è mai questo con una donna in difficoltà, con una donna disperata? Nella nostra società dei moduli da firmare sembra che l'ospedale e la medicina possano risolvere tutto. Così una donna in difficoltà la si manda all'ospedale.
Eppure si sa che gli ospedali tolgono la voglia di parlare anziché farla venire. E se uno si sente già solo per conto suo, dentro un ospedale si sente ancora più solo. Sul letto ti mettono un numero e da quel momento tu non sei più il signor tal dei tali ma sei un numero in mezzo a tanti altri numeri. Bella soluzione per qualcuno che ha solo bisogno di parlare, di essere consolato e magari di farsi anche un bel pianto. L'ospedale va benissimo se ti rompi una gamba, ma se ti si è rotto qualcosa dentro, se ti si è spezzato non un osso ma il cuore, se è la tua anima che ha fatto crack, mi dici a che cosa serve metterti in un letto con sopra un numero? A che cosa serve un modulo che non parla? Serve solo a renderti ancora più disperato e solo. Ed è precisamente questo ciò che successe alla mia mamma, quel giorno.
Dicono che il feto o, se preferite, il prodotto del concepimento (che orrore di espressione, io preferisco sempre bambino) non senta dolore quando viene preso, triturato ed espulso dalla sua mamma. Sbagliato. La scienza ha dimostrato che il feto (bambino) il dolore lo sente, eccome. Solo che non lo può esprimere ad alta voce. E siccome non lo può esprimere, non può farsi sentire, c'è chi pensa che quel dolore lì non ci sia. E' la solita vecchia storia: ciò che non si vede non c'è. Ma io c'ero, ve l'assicuro, e c'era anche il mio dolore. Ora io mi chiedo: nel nostro mondo di oggi si parla tanto di giustizia, progresso, diritti, eccetera eccetera. Ma che giustizia è mai quella che permette di prendere una donna con dentro un bambino, una donna triste e bisognosa di parlare con qualcuno, trasportarla in un anonimo letto di un anonimo ospedale e poi prendere il suo bambino, triturarlo e buttarlo fuori da lei, così, senza tante storie, solo perché un modulo è stato firmato? No, cari miei, qui c'è qualcosa che non va. Qui non c'è giustizia, non c'è progresso e non ci sono diritti. Il diritto di una donna, di una mamma, dovrebbe essere quello di far nascere il suo bambino, non quello di non farlo nascere. Quello di non farlo nascere è un falso diritto, è un non diritto, è un avere diritto al nulla, alla morte, alla negazione della vita. Mi sembra che in giro ci sia molta gente interessata più a questi non diritti che al diritto vero. C'è più gente interessata alla morte che alla vita, più gente che chiede di far avanzare il nulla piuttosto che l'essere. Anche qui c'è qualcosa che non va.
Forse non dovrei essere io a dirlo, io che ero così piccolo e che poi sono stato triturato e non ho mai avuto un nome. Però mi sembra che se i non diritti prendono il posto dei diritti si va verso una brutta fine. Se il nulla prevale sulla vita, se la morte si fa strada al posto del nascere, entriamo in una galleria buia senza sapere dove ci porterà. E le gallerie buie riservano sempre brutte sorprese. Succede anche di scoprire che non ci sia l'uscita. C'è il buio e basta. E a quel punto non puoi neanche fare marcia indietro. Poco prima di essere triturato ed espulso lanciai un segnale. A modo mio, certo, ma lo lanciai. Chiesi a mia mamma di ripensarci, di fermarsi, ma era troppo tardi. Non vi sembri strano che io parli di segnale. Dovete sapere che il feto (bambino) e la mamma comunicano. Non lo dico io, lo dice la scienza. Fin dai primissimi istanti della sua presenza nel corpo della mamma, l'embrione le invia cellule staminali e queste, grazie alla tolleranza immunitaria della madre verso il figlio, vanno a colonizzare il midollo materno. E, questo è il bello, non se ne vanno più. Restano lì per sempre, così che ogni mamma si porta dentro qualcosa del figlio, anche se il figlio in questione nel frattempo è stato fatto a pezzettini ed espulso. Come le so queste cose? Beh, qui dove mi trovo si parla, ci si confronta, ci si documenta. Qui dove mi trovo c'è più vita di quanto si possa immaginare. Anzi, è proprio la vita al centro dei nostri interessi. Così ho imparato non solo che il figlio eredita il cinquanta per cento del patrimonio genetico della mamma (e quindi quando una mamma abortisce uccide qualcosa di sé) ma anche che il feto (bambino) attraverso l'organismo materno è continuamente in contatto con il mondo esterno e che la madre subisce, a opera del figlio, modificazioni a lungo termine, che non si esauriscono affatto con il periodo della gestazione. Chiedetelo agli scienziati, loro ve lo confermeranno....
CONTINUA.... Scarica la storia completa Parole di un bambino mai nato...